giovedì 30 maggio 2013

Il Povero Garzone e la Gattina - Grimm n.106

re garzoni servivano in un mulino dove viveva un vecchio mugnaio senza moglie e senza figli. Dopo aver trascorso alcuni anni insieme, un giorno il mugnaio disse: "Andate, e chi mi porterà a casa il miglior cavallo avrà il mulino". Il terzo garzone era un servitorello che gli altri ritenevano uno sciocco e non volevano che avesse il mulino; del resto egli stesso non lo desiderava. Partirono tutti e tre insieme e, quando furono fuori dal villaggio, gli altri due dissero a quello sciocco di Gianni: "Puoi anche rimanere qui, tanto in vita tua non troverai mai un cavallo". Ma Gianni andò lo stesso con loro e, quando fu notte, giunsero a una grotta dove si coricarono per dormire. I due furbi aspettarono che Gianni si fosse addormentato, poi uscirono dalla grotta e scapparono lasciando Gianni da solo, e pensavano di esser stati astuti: sì, ma vi andrà male! Quando sorse il sole e Gianni si svegliò, si trovò in fondo a una grotta; si guardò attorno ed esclamò: "Ah, Dio! Dove sono mai!". Si alzò, risalì la grotta, andò nel bosco e pensò: 'Come farò mai a trovare un cavallo!'
Mentre se ne andava così, assorto nei suoi pensieri, incontrò una gattina pezzata che disse:
"Dove vai, Gianni?"
"Ah, tu non puoi proprio aiutarmi!" rispose.
"So bene quello che vuoi - disse la gattina - vuoi un bel cavallo. Vieni con me; se mi servirai per sette anni, te ne darò uno, più bello di quanti tu ne abbia mai visti in vita tua."

 Spirin G.

Così la gatta lo condusse nel suo piccolo castello incantato, dove egli doveva servirla e spaccare la legna tutti i giorni: per questo gli fu data un'ascia d'argento, cunei e sega d'argento e la mazza era di rame. E così spaccava la legna e se ne stava in casa, gli davano da mangiare e da bere, ma non vedeva nessuno all'infuori della gatta pezzata. Una volta ella gli disse: "Va' a falciare il mio prato e fai seccare l'erba" e gli diede una falce d'argento e una pietra per affilarla che era d'oro, e gli ordinò di consegnare tutto per bene. Gianni andò e fece come gli era stato ordinato; quand'ebbe finito riportò a casa la falce, la cote e il fieno, domandò se non credeva che fosse ormai giunto il tempo di dargli il suo compenso. "No - rispose la gatta - prima devi farmi un'altra cosa: qui c'è della legna d'argento, un'ascia, una squadra e ciò che occorre, tutto d'argento: costruiscimi una piccola casetta". Allora Gianni costruì la casetta, poi disse che aveva fatto tutto ma non aveva ancora il cavallo.



Spirin G.


I sette anni erano trascorsi come se fossero stati sei mesi. La gatta gli chiese se voleva vedere i suoi cavalli. "Sì" rispose Gianni. Allora aprì la casetta e come dischiuse la porta, ecco là dodici cavalli dall'aspetto superbo. Erano lustri come specchi e il cuore del giovane gli balzò in petto dalla gioia. Poi la gatta gli diede da mangiare e da bere e disse: "Va' pure a casa, il cavallo per adesso non te lo do; fra tre giorni vengo io a portartelo". Così Gianni andò a casa ed ella gli mostrò la strada per il mulino. Ma la gatta non gli aveva dato neppure un vestito nuovo, ed egli dovette tenersi il vecchio camiciotto cencioso, che aveva portato con sè‚ e che gli era diventato troppo corto in quei sette anni. Quando giunse a casa, erano ritornati anche gli altri due garzoni; tutti e due avevano portato un cavallo, ma uno era cieco e l'altro zoppo. Gli domandarono: "Gianni, dov'è il tuo cavallo?". "Arriverà fra tre giorni." Si misero a ridere e dissero: "Sì, dove vuoi trovarlo tu un cavallo, Gianni! Chissà che bella roba!". Gianni entrò nella stanza, ma il mugnaio gli disse che non poteva sedersi a tavola: era troppo cencioso e lacero, c'era da vergognarsi se entrava qualcuno. Così gli diedero due bocconi di cibo e lo fecero andare fuori a mangiarseli; e la sera, quando andarono a dormire, gli altri due non vollero dargli un letto, ed egli finì coll'andare nella stia delle oche e coricarsi su di un po' di paglia. La mattina dopo, quando si sveglia, sono già trascorsi i tre giorni, e arriva una carrozza trainata da sei cavalli, ah, così lucidi che era uno splendore! e un servo ne conduceva un settimo, per il povero garzone. Ma dalla carrozza scese una splendida principessa che entrò nel mulino: era la piccola gattina pezzata, che il povero Gianni aveva servito per sette anni. Domandò al mugnaio dove fosse il garzone, il servitorello. Il mugnaio rispose: "Non possiamo più lasciarlo venire al mulino, è troppo cencioso; è nella stia delle oche". Allora la principessa disse di andare subito a chiamarlo. Così fecero, ed egli dovette tenere insieme i brandelli del suo camiciotto per coprirsi. Allora il servo tirò fuori degli abiti sfarzosi, e dovette lavarlo e vestirlo; e quando fu in ordine, nessun re poteva sembrare più bello. Poi la fanciulla volle vedere i cavalli che avevano portato gli altri due garzoni: uno era cieco e l'altro zoppo. Allora ella ordinò al servo di portare il settimo cavallo, e quando il mugnaio lo vide, disse che nel suo cortile non ve n'era mai stato uno simile. "Questo è per il terzo garzone" diss'ella.
"Allora avrà il mulino" disse il mugnaio, ma la principessa rispose che lì c'era il cavallo e che poteva tenersi anche il mulino; poi prende il suo fedele Giovanni, lo fa sedere nella carrozza e se ne va con lui. Vanno nella casetta ch'egli ha costruito con gli arnesi d'argento: è un grande castello e tutto dentro è fatto d'oro e d'argento. Là si sposarono, ed egli fu ricco, così ricco che non gli mancò mai nulla per tutta la vita. Perciò nessuno deve dire che uno sciocco non può fare fortuna.


Grimm n. 106, "Der arme Müllerbursch und das Kätzchen"
Classificazioni: AaTh 402 [The Animal Bride]

Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

Le Tre Piume - Grimm n.63

'era una volta un re che aveva tre figli: due erano intelligenti e avveduti, mentre il terzo parlava poco, era semplice, e lo chiamavano il Grullo. Quando il re diventò vecchio e pensò alla sua fine, non sapeva quale dei figli dovesse ereditare il regno dopo la sua morte. Allora disse loro: "Andate, colui che mi porterà il tappeto più sottile diventerà re dopo la mia morte." E perché‚ non litigassero fra di loro, li condusse davanti al castello, soffiando fece volare in aria tre piume e disse: "Dovete seguire il loro volo." Una piuma volò verso oriente, l'altra verso occidente, mentre la terza se ne volò diritto e non arrivò molto lontano, ma cadde a terra ben presto. Così un fratello andò a destra, l'altro se ne andò a sinistra; il Grullo invece fu deriso perché‚ dovette fermarsi là dov'era caduta la terza piuma.
Il Grullo si mise a sedere tutto triste. D'un tratto scorse una botola accanto alla piuma. L'aprì e discese una scala venendosi a trovare davanti a un'altra porta; bussò e sentì gridare dall'interno:

"Oh, Donzelletta verde e piccina 
Dalla zampa secca, 
Sparuta cagnolina, 
Ehi proprio tu, stammi a sentire, 
Chi c'è là fuori mi devi dire!" 

La porta si aprì ed egli vide un rospo grande e grosso, con tanti piccoli rospetti attorno. Il rospo grande gli domandò che cosa egli desiderasse. Rispose: "Un tappeto che sia il più bello e il più sottile di tutti." Allora il rospo chiamò uno dei suoi rospetti e disse:

"Oh, Donzelletta verde e piccina 
Dalla zampa secca, 
Sparuta cagnolina, 
Ehi proprio tu, stammi ad ascoltare, 
Proprio la scatola mi devi portare!" 

La bestiola andò a prendere la scatola e il rospo grande l'aprì e diede al Grullo un tappeto, bello e sottile come nessun altro sulla terra. Il Grullo ringraziò e se ne tornò a casa.
Gli altri due fratelli credevano che il minore fosse tanto sciocco che non sarebbe stato in grado di trovare nulla. "Perché‚ darsi la pena di cercare tanto!" dissero; tolsero alla prima pecoraia che incontrarono le rozze vesti e le portarono al re. In quella arrivò anche il Grullo con il suo bel tappeto, e quando il re lo vide si meravigliò e disse: "Il regno spetta al più giovane." Ma gli altri due non gli diedero pace, dicendo che era impossibile che il Grullo diventasse re; e lo pregarono di porre un'altra condizione. Allora il padre disse: "Erediterà il regno colui che mi porterà l'anello più bello." Condusse fuori i tre fratelli e soffiò in aria le piume che essi dovevano seguire. I due maggiori se ne andarono di nuovo verso oriente e verso occidente, mentre la piuma del Grullo volò dritta e cadde accanto alla botola. Egli scese di nuovo dal grosso rospo e gli disse che aveva bisogno dell'anello più bello del mondo. Il rospo si fece portare la scatola e gli diede un anello bellissimo, quale nessun orefice sulla terra avrebbe mai saputo fare. I due fratelli maggiori si fecero beffe del Grullo che andava in cerca di un anello d'oro, e non si diedero molta pena: schiodarono un anello da un vecchio timone e lo portarono al re. Ma quando questi vide lo splendido anello che aveva portato il Grullo, disse: "Il regno spetta a lui." Ma i due maggiori tormentarono tanto il re finché egli pose una terza condizione e stabilì che avrebbe ottenuto il regno chi avesse portato a casa la donna più bella. Tornò a soffiare in aria le tre piume, che volarono come le altre volte.
Allora il Grullo si recò per la terza volta dal rospo e disse: "Devo portare a casa la donna più bella." "Accidenti! - rispose l'animale - la donna più bella! Sarai tu ad averla." Gli diede una zucca cui erano attaccati sei topolini. 'Che me ne faccio' pensò il Grullo tutto triste. Ma il rospo disse: "Adesso mettici dentro uno dei miei rospetti." Egli ne prese uno a caso e lo mise nella zucca; ma non appena l'ebbe sfiorato, il rospo si tramutò in una bellissima fanciulla, la zucca divenne una carrozza e i sei topolini, sei cavalli. Salirono in carrozza, e il giovane baciò la fanciulla e la portò al re. Giunsero anche i fratelli, che avevano sottovalutato a tal punto il fratello da condurre con sè le prime contadine che avevano incontrato. Allora il re disse: "Dopo la mia morte il regno toccherà al minore." Ma i due maggiori ricominciarono di nuovo a protestare dicendo di non poter ammettere che il Grullo diventasse re, e pretesero che avesse la preferenza quello la cui moglie era in grado di saltare attraverso un cerchio appeso in mezzo alla sala. Essi infatti pensavano: "Le contadine sono forti e ci riusciranno, la delicata fanciulla invece si ammazzerà saltando." Il re accordò anche questa prova. Le due contadine saltarono e riuscirono sì ad attraversare il cerchio, ma erano così sgraziate che caddero a terra spezzandosi braccia e gambe. Poi saltò la bella fanciulla che il Grullo aveva portato con sè; saltò attraverso l'anello con agilità estrema e conquistò il regno. Alla morte del re, il Grullo ereditò così la corona e regnò a lungo con grande saggezza.



Parrish M.


Grimm n.63, "Die drei Federn"
Classificazione: AaTh 402 [The Animal Bride]

Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

La Principessa-Ranocchia, di Afanas'ev

ei tempi remoti di un passato lontano c'era uno zar che aveva tre figli maschi, tutti e tre ormai cresciuti. Un giorno disse loro:" Figli miei, ora procuratevi una balestra e andate a tirare con essa: la donna che vi porterà indietro la freccia sarà vostra moglie, se nessuno ve lo porterà indietro, vuol dire che non dovrete sposarvi".


Spirin G.

Il figlio maggiore tirò con la sua balestra e la figlia di un principe gli riportò la sua freccia; poi tirò l'altro figlio e la figlia di un generale gli riportò la sua freccia; quando tirò il più giovane, Ivan zarevic, una rana uscita dallo stagno gli riportò fra i denti la sua freccia. Mentre i primi due furono allegri e contenti Ivan zarevic rimase pensieroso, poi si mise a piangere:" Come farò a vivere con una rana? Trascorrere la vita non è come attraversare un fiume o un campo!" Pianse a lungo, ma non ci fu niente da fare, dovette prendere in moglie la rana. Tutti e tre i figli si sposarono secondo il rito del luogo e la rana fu tenuta su un piatto.



Cominciarono a vivere insieme. Un giorno lo zar ebbe voglia di verificare la capacità di cucito delle nuore, di saggiarne l'abilità e diede loro un incarico. Ivan zarevic divenne di nuovo pensieroso e pianse:' Cosa potrà mai fare la mia rana? Tutti si metteranno a ridere!' La rana non faceva che strisciare sul pavimento e gracidare. Ma appena egli si addormentò, essa uscì per strada, si spogliò del suo rivestimento, divenne una splendida fanciulla e gridò:" Ehi, balie! Venite a farmi quello che mi occorre!". Le balie portarono immediatamente una camicia cucita nel modo più raffinato.
La fanciulla la prese, la piegò e la depose accanto a Ivan zarevic, poi si tramutò nella rana di prima, come se non fosse successo nulla. Ivan zarevic si svegliò, si rallegrò assai, prese la camicia e la portò allo zar. Lo zar la prese, la osservò:" Questa sì che è una camicia! La metterò nei giorni del Signore". Il secondo figlio arrivò con la sua camicia e lo zar disse:" Questa va bene per andare al bagno a vapore!". E al figlio maggiore, quando portò la sua camicia, disse:" Questa va bene per stare in una povera izba!" I figli dello zar si allontanarono; i due maggiori parlarono tra loro:" Abbiamo avuto torto a deridere la moglie di Ivan zarevic, non dev'essere una rana, ma una scaltra maga".










Dopo questo fatto lo zar ebbe l'idea di organizzare un ballo per vedere quale delle sue nuore danzasse meglio. Si riunirono tutti gli ospiti e le nuore, tranne Ivan zarevic che, in disparte, riflettè:' Dove posso andare io con la mia rana?'. E pianse a dirotto. La rana allora gli parlò:" Non piangere, Ivan zarevic! Vai al ballo, io arriverò tra un'ora".
Ivan zarevic si rianimò un po', quando sentì che la rana parlava, poi si allontanò. Essa si spogliò del suo rivestimento, ne assunse un altro, meraviglioso. Arrivò al ballo; Ivan zarevic ne fu felice e tutti applaudirono: era una vera bellezza! Iniziò il pranzo; la moglie di Ivan zarevic mangiò la carne e infilò gli ossicini in una manica, bevve un po' e versò il rimanente nell'altra manica.Le due nuore quando videro ciò che faceva cominciarono anch'esse a infilare le ossa in una manica e i fondi di bicchiere nell'altra. Arrivò il momento delle danze. Lo zar mandò a ballare le prime due nuore ed esse guardarono come faceva la terza. La rana trascinò con sè Ivan zarevic e si avviò a ballare; danzò, volteggiò ch'era una meraviglia. Agitò il braccio destro e comparvero boschi e fiumi, agitò quello sinistro e comparvero varie specie di uccelli. Tutti rimasero senza parole. Quando finì  di danzare ogni cosa scomparve. Poi andarono a ballare le altre nuore e volevano che si ripetessero le stesse meraviglie, ma quando la prima agitò il braccio destro ne uscirono solo ossa che si sparpagliarono sui presenti, dalla manica sinistra invece sprizzò acqua che andò a riversarsi sempre sui presenti. Lo zar scontento gridò:" Basta! Basta!". E le nuore smisero.
Il ballo finì. Ivan zarevic uscì prima degli altri, trovò in giro l'involucro della moglie, lo prese e gli diede fuoco.
Quando essa arrivò si lanciò verso il suo involucro: no! era già bruciato. Si coricò insieme a Ivan zarevic; prima dell'alba gli disse:" Sai, Ivan zarevic, sei stato troppo impaziente; potevo essere tua, ma ora Dio solo sa cosa succederà. Addio. Cercami di là dai monti e dai mari". Detto questo sparì.





La Principessa Rana, in Italia e nel mondo

Dalle note di Calvino alla fiaba n.14, "Il Principe che Sposò una Rana", (dalla fiaba piemontese di Comparetti, "La Moglie Trovata con la Frombola"):
"Quella della sposa-rana è una fiaba diffusa in tutta Europa; gli studiosi ne contano 300 versioni"
E, a proposito della diffusione e delle varianti di questo motivo fiabesco in Italia:
"Una versione piuttosto diversa (una giovane è nata sotto forma di rana o topo, o uccello, e il principe se ne innamora senza vederla) si racconta a Venezia, in Trentino, in Dalmazia ed Emilia...
In Calabria la sposa trovata nel fosso è una fata, non una rana. In Sicilia (Pitrè 45, "La Gobbetta") alle medesime prove è sottoposta una principessa gobba".
Calvino ricorda anche una novella di Nerucci in cui la principessa è una scimmia, "Il Palazzo delle Scimmie" (la sua omonima n.63), e sottolinea di averne trovato solo un'altra versione simile, in Sardegna.

Queste sono le varianti che ho nella mia raccolta di fiabe, o, almeno, quelle meritevoli di  menzione.
"Le Tre Piume", Grimm 63
"Il Garzone e la Gattina", Grimm 106
"La Topolina", Svezia
La letteraria "La Chatte Blanche" di Mme d'Aulnoy, ma anche una versione popolare francese, "La Gattina Bianca"
La bretone "La Principessa che Venne trasformata in Topo"
"Il Ragazzo che Volle Sposarsi" e "La Bambola Erbolina", Norvegia
"La Tartaruga Fatata", Romania
"La Figlia del Nano", Grecia
"La Storia della Donna Scimmia", Nepal
"L'Incubo del Re", India
"La Principessa Scimmia", Rajastan
"Il Principe Obbediente", una fiaba popolare araba
E' presente in una fiaba siriana "La Bugia delle Bugie", dalla tipica struttura la storia nella storia, con una fiaba-cornice.



Parrish M.

Anna Buia, nelle note alla raccolta "Racconti di Orchi, di Fate e di Streghe", a cura di Mario Lavagetto, per i Meridiani, rimarca la metamorfosi in rana come quella più antica, e la presenza di un gran numero di versioni di questa fiaba in Europa "dove probabilmente è nata".
Già confrontando le sue parole con l'elenco  di varianti che ho inserito, è piuttosto semplice rendersi conto che l'origine europea di  questa fiaba è un'ipotesi azzardata.

"La tradizione orale è stata pesantemente influenzata dalle elaborazioni letterarie dell'intreccio, prima fra tutte La Gatta Bianca di Madame D'Aulnoy e la storia di Pari-Banu di Galland.
In Italia prevale la sposa-rana, ma in alcune versioni, a testimoniare una possibile influenza del modello colto francese, troviamo la sposa-gatta [...] o ancora, secondo un motivo centro o est europeo, la sposa scimmia".

Dagli esempi portati, la sposa-scimmia è diffusa in India, Nepal, ecc. In Italia, la troviamo nel Pistoiese e in Sardegna.
Un capitolo a parte, la diffusione del motivo in Oriente ed Estremo Oriente, per il confine sottilissimo tra La Sposa Animale, (AaTh 402 [The Animal Bride]), e La Sposa Soprannaturale.

Più interessanti le osservazioni sugli elementi ricorrenti in tutte le versioni, ad esempio, il fatto che il protagonista si rivolga alla rana parlando in rima e che almeno una delle tre prove riguardi la Filatura, " attività tipicamente femminile e, nell'universo fiabesco, legata alle fate".
Notevole anche le annotazioni sulla natura ancestrale e simbolica della rana:
"...Forse per le profonde trasformazioni cui è sottoposta durante il suo ciclo biologico, forse per la natura anfibia, o ancora, seguendo la suggestiva ipotesi di Marija  Gimbutas, per la sua somiglianza con la vulva femminile e/o con la postura della partoriente, la rana è una delle raffigurazioni più diffuse della procreazione e della rigenerazione, come dimostrano numerosissimi amuleti diffusi nel Neolitico e ancora prima. Simbolo della fecondità della natura nell'antico Egitto, in epoche successive la rana, insieme al rospo, viene associata alle streghe e diventa un ingrediente indispensabili delle loro pozioni. "

Mab



martedì 28 maggio 2013

Lady Isabel e il Cavaliere Elfo


La bella Lady Isabel siede sotto la pergola, cucendo.

Ritornello: Gaie, crescono le margheritine.

Sentì un Cavaliere suonare il suo corno.

Ritornello: Era il primo giorno di maggio.

"Ah, se potessi avere quel corno che ha suonato
E quel Cavaliere Elfo sul mio seno addormentato!"
La damigella aveva appena pronunciato queste parole
Che un Cavaliere attraversò con un balzo la finestra.
"Che strana faccenda, mia leggiadra donzella -  le disse,
"Tu mi invocasti ed io non posso più suonare il mio corno.
Verrai con me nella verde foresta?
Se non ti unisci a me, allora ti costringerò."
Balza in groppa ad un cavallo, e lei ad un altro,
E galoppano insieme fin dentro la verde foresta.
"Rallenta, rallenta, Lady Isabel! - disse il Cavaliere,
Perché sei giunta nel luogo in cui dovrai morire".
"Pietà! Pietà di me, cortese Signore!-
Che io riveda il mio caro Padre e la mia cara Madre un'ultima volta!"
"Qui giacciono sette figlie di Re che io ho scannato,
E tu sarai l'ottava."
"Oh, siedi per un po', sulle mie ginocchia posa il tuo capo,
Un breve riposo prima della mia morte."
A sé lo attrasse, più vicino che potè,
Con una nenia incantata profondamente lo addormentò,
Con la cintura della sua spada stretto lo legò,
Con il suo affilato stiletto rapida lo trucidò.
"Se qui sette figlie di Re hai scannato,
Qui giaci, marito a tutte loro."

Traduzione: Mab's Copyright



Cowper F.C.


Il Castello Errante di Howl (Secondo Me) - Capitolo Quinto

Che è veramente troppo pieno di lavaggi

"Sophie decise che l'unica cosa da fare per garantirsi l'ospitalità al Castello era dimostrare a Howl di essere una domestica sopraffina, un vero tesoro."

Suscitando forti reazioni negli altri abitanti del castello - grande rabbia (Calcifer) e costernazione (Michael) - Sophie si tuffa letteralmente in un oceano di polvere per guadagnarsi l'ospitalità di Howl. Fortunamente, come è stato già spiegato, il grande castello è solo un'illusione creata intorno alla casetta (4 stanze+cortiletto invaso da ferraglie ) di Porthaven dove realmente Howl, alias Jenkins lo Stregone, abita. E, mentre la vecchia Sophie mette sottosopra il laboratorio-cucina, bussano proprio da Porthaven. Michael, avvisato dal solito urlo del dèmone, ruota verso il basso la parte blu del pomello ed apre ad una ragazzina venuta a ritirare un incantesimo: si tratta di una polverina capace di proteggere la barca del padre pescatore anche dalla tempesta più spaventosa.
E paga con una moneta che Michael, osservato con approvazione da Calcifer, nasconde sotto una pietra del camino. La giovanissima cliente, molto incuriosita, sbircia Sophie e chiede se è, per caso, una nuova apprendista-strega di Howl.

"... Sì, bambina mia, sono la Strega migliore e più pulita delle terre di Ingary.[...] Quand'era una ragazza le sarebbe venuta la pelle d'oca per l'imbarazzo al solo pensiero di come si stava comportando, da vecchia non le importava niente di quello che dicesse e facesse. Tutto sommato era un gran sollievo."

Continuando a sollevare gran nuvoloni di polvere e lottando contro le matasse di ragnatele che penzolavano dalle travi del soffitto, fra le proteste di Calcifer e di Michael, Sophie fa qualche scoperta e intanto sbircia in giro. Viene così a sapere che il giovane apprendista nasconde gli introiti derivanti dalla vendita degli incantesimi perché Howl è uno spendaccione "sciocco e imprevidente", e si domanda su quale parte del mondo si spalanchi la porta del castello quando il pomello è sul lato dipinto di nero. Intanto, Howl esce dalla stanza da bagno avvolto, come sempre, in una nuvola di profumo. Naturalmente, è elegantissimo e si ripara con le ampie maniche guarnite da filigrana d'argento dalla pioggia di polvere e ragnatele suscitata dalla "vecchia" Sophie in vena di grandi pulizie.





Soprattutto, il Mago si infastidì per la guerra ai ragni e le proibì di continuarla. Sophie adottò il solito sistema: fece finta di nulla e, con una sfacciataggine che sarebbe stata assolutamente inconcepibile per la "giovane" Sophie, chiese a Howl, mentre questi - raccolta la sua chitarra - si apprestava ad uscire, dove conducesse il lato nero del pomello.
" Che vecchia ficcanaso! Il nero porta al mio privatissimo rifugio e non sei tenuta a sapere dove si trovi."
Poi uscì, non senza averle proibito di toccare ancora i ragni. E, quando Howl assume un certo tono, Sophie sa fermarsi prudentemente ed obbedisce. Dagli ammiccamenti e dalle risatine dell'apprendista e del dèmone del fuoco, intuisce che il Mago è uscito "a caccia di ragazze", ancòra indecisa sul grado di preoccupazione che una simile idea debba suscitare in lei!
La sua iperattività casalinga esasperò totalmente Michael e Calcifer: l'uno pentito di avere avuto compassione di quella vecchia ostinata, impicciona e in moto perpetuo, l'altro, costantemente sotto la minaccia della sua paletta per la cenere e delle secchiate d'acqua, pentito perfino di aver stretto con lei il famoso patto. Al ritorno di Howl, Michael lo seguì e si rinchiuse con il Mago nella stanza da bagno, e Sophie potè ascoltare il fiume di proteste e lamentele che la riguardavano. Ma Howl le chiese soltanto se gli avesse obbedito ed avesse lasciato in pace i ragni, e, alla sua risposta affermativa, si disinteressò completamente di lei. Quella notte, Sophie ebbe l'impressione di essere tacitamente accolta nel Castello. Su ordine di Howl, infatti, Michael le sistemò un lettuccio pieghevole nel sottoscala che, pian piano, nei giorni seguenti, si sarebbe trasformato nella sua "cuccia".
Durante le frequenti e prolungate assenze di Howl, Sophie continuò l'impresa disperata di ripulire e mettere in ordine il covo di quella strana "famigliuola". Sempre fra gli strilli di Calcifer e i mugugni di Michael. La sua scusa era che cercava il nascondiglio segreto del Mago, quello che forse le avrebbe svelato "le anime prigioniere delle ragazze o i loro cuori masticati "e qualche indizio sul patto che legava Howl a Calcifer e da cui dipendeva, ormai, anche la sua liberazione dal maleficio della Strega! Intanto, il ruolo di Sophie diventava ufficiale anche al di là della porta del Castello:

" Come Michael aveva profetizzato, la voce era corsa veloce per tutta Porthaven , così la gente incominciò a presentarsi alla porta per vedere Sophie, che ora veniva chiamata Signora Fattucchiera; a Kingsbury, invece, era stata nominata Signora dei Sortilegi, infatti la notizia si era sparsa anche nella Capitale. "

E, finalmente, si dedicò alla pulizia del bagno di Howl.

" 'Cerchiamo qualcosa che riguardi il contratto' mormorò la prima volta alla vasca, ma il suo vero obiettivo era la scansia dei pacchetti, vasi e tubetti. Col pretesto di pulire accuratamente lo scaffale li spostò uno a uno e li esaminò accuratamente per vedere se dietro le etichette che dichiaravano Pelle, Occhi e Capelli ci fossero in effetti minuscoli resti di ragazze. Mentre procedeva con il lavoro, si convinse che, in effetti, erano soltanto creme, ciprie e tinture. Se mai si fosse trattato di di ragazze che non ce l'avevano fatta contro Howl, doveva aver usato il misterioso contenuto del tubetto Perdenti. Una volta decomposte, Howl avrebbe potuto sbarazzarsi facilmente dei resti nel lavandino, ma in cuor suo Sophie sperò che in tutti quei contenitori ci fossero solo dei cosmetici.

Sopravvissuta alla pulizia del bagno di Howl, Sophie, armata, come il solito, di ramazze e spazzoloni, entra nella camera di Michael, nonostante la disperata ribellione di quest'ultimo, che, infine, sconfitto, fugge salvando il suo tesoro: una scatola che teneva nascosta sotto il letto. Sophie crede di scorgere quelle che sembrano lettere d'amore, legate con un nastro azzurro ornato da una rosa di zucchero.
La marcia della "vecchia domestica" si spinge fino al cortiletto ingombro di rottami che - si è detto - apparteneva con la cucina-laboratorio, le due camere e il bagno, al nucleo reale del castello, ovvero la casetta di Porthaven. Ma cadeva una fastidiosa pioggerellina e Sophie rinunciò a sgombrare il cortile, non senza scovare un piccolo tesoro: un grande barattolo di pittura bianca con cui rinfrescò le pareti affumicate della cucina. Perfino Howl notò un cambiamento!

"Quando Howl rientrò, il terzo giorno, non poté fare a meno di esclamare: 'Cos'è successo qui? Sembra tutto più luminoso.' 
Michael, con voce da funerale, pronunciò solo: 'Sophie!' 
'Avrei dovuto indovinarlo ' disse il Mago scomparendo nel bagno.' 
'L'ha notato! - bisbigliò Michael a Calcifer - Evidentemente la ragazza alla fine sta cedendo!"

Il giorno successivo, forse incoraggiata da questo piccolo successo, Sophie attese che Howl uscisse per avventurarsi nella sua camera. Non aveva più tanta paura. Non aveva mai creduto sino in fondo né ai grandi poteri né alla spaventosa malvagità del Mago. In base a quello che aveva potuto osservare, più che timore, Howl le ispirava disprezzo.
Erano Michael e Calcifer a mandare avanti la baracca, e gli unici poteri che aveva visto all'opera erano quelli del dèmone del fuoco. Salì le scale e si apprestò ad entrare nella tana di Howl, quando lo vide lì, fermo sulla soglia.
"No, non lo fare - le disse in tono gentile - voglio che la mia camera resti sporca." Sophie rimase per un attimo interdetta. Lo aveva visto allontanarsi dal Castello!
"Ho immaginato quello che avevi intenzione di fare. Hai fatto del tuo peggio con Michael e Calcifer, quindi, una volta terminato con loro, era logico che avresti rivolto su di me le tue attenzioni. Qualsiasi cosa ti abbia detto Calcifer, non dimenticare che io sono un Mago. O forse pensavi che non fossi nemmeno in grado di fare una magia così piccola?"
Sophie non volle ammettere di essere rimasta spiazzata e che certe sue teorie traballavano, ma cercò di difendere il suo diritto di svolgere le proprie mansioni. E Howl difese il proprio diritto di vivere in un porcile, se ne aveva voglia. Sbirciando al di sotto della sua fluente manica, Sophie scorse una camera sporca, ingombra di libri dall'aria sospetta, una stanza che ricordava "il nido di un uccello". Infine, Howl riuscì ad allontanarla. "Per favore. Odio litigare con la gente." Sophie decise di spostarsi finalmente in cortile e si accinse a mettere ordine fra i rottami. Ma Howl le impedì anche questo. Esasperata, Sophie quasi urlò: "Fare le pulizie è il mio compito qui !' '
'Allora devi inventarti una nuova ragione di vita!' le rispose Howl..."
E stavolta sembrò sul punto di arrabbiarsi sul serio. E - le disse - lui odiava arrabbiarsi! Sophie arruffò di nuovo le penne: " ... Non ti piace fare niente che ti risulti sgradevole, vero? Sei un opportunista!..." Howl le rivolse un altro di quegli sguardi gelidi che sembravano sfiorarla senza vederla. " Bene, ora conosciamo i difetti l'uno dell'altra. Torna in casa. Sbrigati."
E, nell'indicarle la direzione, strappò la sua bella manica che si impigliò in uno dei rottami smossi dalla vecchia domestica. Alla sua imprecazione, Sophie si offrì di rammendare la manica.

"Le diede un'altra occhiata glaciale.' Ecco, ci stai ricadendo. Devi proprio amare il servilismo!' Howl prese delicatamente i lembi strappati della manica fra le dita della mano destra e li unì. Non appena la sua mano lasciò la stoffa, Sophie vide che lo strappo era scomparso. 'Ecco fatto! Hai capito adesso?'

Sophie si avvilì. Si chiese come mai non l'avesse ancòra licenziata e quale fosse il senso della sua presenza nel Castello. E comunicò i suoi dubbi a Michael, che non seppe risponderle. " Non lo so! E la cosa mi colpisce. Penso che Calcifer abbia comunque a che fare con la vostra permanenza in questo posto. Infatti, tutti quelli che entrano nel castello o non lo notano nemmeno o ne sono spaventati a morte.Voi, invece...".

Mab's Copyright

domenica 26 maggio 2013

Il Sorcetto con la Coda che Puzza - Calvino 182

i racconta che una volta c'era un Re, e questo Re aveva una figlia, bella da non dirsi. Le venivano proposte di matrimonio da Regnanti e Imperatori, ma suo padre non la voleva dare a nessuno perché ogni notte lo svegliava una voce che diceva:"Non maritare tua figlia! Non maritare tua figlia!". La povera ragazza si guardava allo specchio e diceva:"E come? Bella come sono, non mi posso sposare?" e non riusciva a darsi pace. Un giorno, mentre tutti erano a tavola, così parlò a suo padre:"Padre mio, perché io, così bella, non mi posso sposare? Ecco cosa vi dico: vi do due giorni di tempo, e se in questi giorni non mi trovate un fidanzato, io m'ammazzo".
"Se la metti così - disse il Re - sta' a sentire cos'hai da fare: ti vesti oggi stesso col tuo più bel vestito, t'affacci alla finestra e il primo che passa e ti guarda, lo prendi per marito. Io non ne voglio più sentir parlare". La figlia così fece: s'affacciò col suo più bel vestito, e chi passò per la strada? Un piccolo sorcio, con una coda lunga lunga e puzzolente. Il sorcetto si fermò e si mise a guardare la figlia del Re alla finestra. E lei, appena sentì su di sé quello sguardo, si ritirò gridando:" Padre mio, cosa m'hai detto? È un sorcio che m'ha guardato per primo! Che devo forse sposarmi un sorcio?" Ritto a braccia conserte, il padre l'aspettava in mezzo alla stanza: " Sì, figlia mia. Quel che ho detto ho detto. Il primo che passa lo devi sposare", e, subito, scrisse a tutti i Principi e i Grandi di Corte invitandoli al gran pranzo di nozze di sua figlia. Vennero gli invitati in gran pompa e si sedettero a tavola. S'erano già tutti seduti, e lo sposo non si vedeva. Si sentì un "toc-toc" alla porta, e chi era? Il sorcetto con la coda che puzza. Un cameriere in livrea gli andò ad aprire.
" Che vuoi?", gli chiese.
" Annunciatemi - disse il sorcetto - sono il sorcio che viene a sposare la Reginella".
" Il sorcio che viene a sposare la Reginella!" annunciò il Maggiordomo.
" Che sia introdotto " disse il Re. Il sorcetto entrò di corsa, guizzò sul pavimento, s'arrampicò sulla poltrona accanto a quella della Reginella e si sedette. La povera fanciulla, vedendo il sorcetto al suo fianco, si fece in là, tutta schifata e vergognosa. Ma il sorcetto, facendo finta di niente, più lei si scostava più lui le veniva vicino. Il Re raccontò tutta la storia agli invitati, e gli invitati, per accondiscendere ai voleri del Re, sorridevano e dicevano: " E sì, ben detto, proprio il sorcetto dev'essere il marito della Reginella". Dai sorrisi passarono alle risate, e cominciarono a ridere sul naso del sorcetto. Il sorcetto se la prese in mala parte. Chiamò il Re a quattr'occhi e gli disse:
" Guardi, Maestà, che o lei avverte tutta questa gente che con me non bisogna scherzare, o la va a finir male". Era così minaccioso che il Re promise, e, tornati a tavola, diede ordine di non ridere e di rispettare il fidanzato. Portarono le pietanze, ma il sorcetto era basso, e seduto sulla poltrona non arrivava alla tavola. Gli misero sotto un cuscino ma non bastava; allora si andò a sedere in mezzo alla tavola. " C'è qualcuno che ha qualcosa in contrario?" chiese, guardandosi intorno con aria permalosa. Ma tra gli invitati c'era una signora molto schifiltosa, che, a vedere il sorcetto ficcare il muso nel piatto e muovere quella coda lunga lunga e puzzolente fin nei piatti dei vicini, si tratteneva a stento. E, quando il sorcio, finito di mangiare nel suo piatto cominciò a cacciare il muso in quello dei vicini, sbottò:" Ma che indecenza! Ma s'è mai visto uno schifo simile! E' possibile che alla tavola del Re si vedano di queste cose!"

 Spirin G.

Il sorcetto alzò il muso contro di lei, coi baffi ritti, poi, come preso da ua furia, cominciò a saltare per la tavola, con gran colpi di coda, e saltava al viso dei commensali mordendo le barbe e le parrucche, e a ogni colpo di coda quello che lui toccava spariva: sparirono zuppiere e fruttiere, sparirono i piatti e le posate, sparirono a uno a uno gli invitati, sparì il tavolo, sparì il palazzo e non restò che una gran pianura deserta. La Reginella, ritrovandosi sola e abbandonata, in mezzo a questa pianura deserta, prese a piangere e a dire:

Ahimè, sorcetto mio! 
Prima non ti volevo e ora ti desio!

E ripetendo queste parole, si mise a camminare, a Dio e alla ventura. Incontrò un eremita.
"Che cosa fai, buona giovane, in questi posti selvatici? Se ti trova un leone o una Mamma-Draga, povera te!"
"Io non voglio sapere niente - disse la Reginella - Voglio trovare il sorcetto mio: prima non lo vedevo e ora lo desio".
"Non so che dirti, ragazza mia - disse l'eremita - Cammina finchè non trovi un eremita più vecchio di me che forse potrà darti un consiglio".
E lei continuò a camminare, sempre ripetendo:" Ahimè. sorcetto mio... - finchè non trovò l'altro eremita che le disse:" Sai che devi fare? Scava un buco per terra, ficcati là dentro, e poi vedi un po' quel che succede". La poverina si tolse la forcina d'in capo, perchè non aveva nient'altro per scavare, e scava scava fece un buco per terra grande come lei, ci si ficcò e scese in un gran sotterraneo buio. 'Alla sorte e alla ventura!" si disse, e prese a camminare. Il sotterraneo era pieno di ragnatele che le si appiccicavano al viso, e più se ne staccava più gliene venivano. Dopo una giornata di cammino, sentì un croscio d'acqua e si trovò sull'orlo d'una gran peschiera. Mise un piede in acqua, ma la peschiera era profonda; avanti non poteva andare e indietro nemmeno, perchè il buco s'era chiuso dietro di lei. 'Ahimè, sorcetto mio! - ripeteva - Ahimè, sorcetto mio!' In quella cominciò a pioverle acqua da tutte le parti. Non c'era più scampo e si gettò nella peschiera. Quando fu sott'acqua vide che non era sott'acqua, ma in un gran palazzo. La prima stanza era tutta cristallata, la seconda tutta vellutata, e la terza tutta zecchinata. E così passò di stanza in stanza, tra preziosi tappeti e splendenti lampadari, finchè non si perdette. E sempre ripeteva:

Ahimè sorcetto mio! 
Prima non ti volevo e ora ti desio!

Trovò una tavola imbandita e si mise a mangiare. Poi passò in camera da letto, si mise a letto e si addormentò. A notte sentì un fruscio come un correre di topo. Aperse gli occhi, ma tutto era buio. Sentiva il topo che correva per la stanza, che s'arrampicava sul letto, che s'intrufolava tra le coltri, e tratto tratto la sfiorava sul viso, mandando un piccolo squittio. Lei non osava dir nulla, e stava rincantucciata nel letto tremando. L'indomani s'alzò, girò di nuovo per il palazzo senza vedere nessuno. A sera ritrovò la tavola imbandita, mangiò e andò a letto. E ancora sentì il sorcetto che correva per la stanza e le veniva fin quasi sul viso, e lei non osò dir nulla. La terza notte, quando sentì il fruscio si fece forza e disse:

Ahimè, sorcetto mio! 
Prima non ti volevo e ora ti desio!

"Accendi il lume", disse una voce. L a Reginella accese una candela, e nvece del topo vide un bel giovane. "Sono io il sorcetto con la coda che puzza - disse il giovane - Un incantesimo mi aveva trasformato, e ci voleva una bella ragazza che s'innamorasse di me e soffrisse tutte le tue pene, per liberarmi dall'incantesimo." Figuratevi la felicità della Reginella. Uscirono subito dal sotterraneo e celebrarono le nozze.

E se ne stettero felici e contenti 
E noi siamo qua a stuzzicarci i denti.



Leighton

Da:
Calvino, fiaba n.182, liberamente tratto da "Lu Surciteddu cu la Cuda Fitusa" del Pitrè.

L'inizio presenta il motivo fiabesco de "Le Principesse Maritate al Primo che Passa" (I tre Re animali o "padroni" di popoli animali che sposano tre principesse sorelle dell'eroe, che aiuteranno nella conquista della sua principessa prigioniera. Motivo presente nel cunto IV, 3 del Basile, "li Tri Re Animale". Tittone, figlio del re Verdecolle, va alla ricerca di tre sue sorelle carnali, maritate con un falcone, con un cervo e con un delfino, e, dopo lunghi viaggi, le trova. Al ritorno, veduta una figlia di re che stava in potere di un dragone entro una torre, con un segnale che fa, ha pronti in aiuto i tre cognati; e, con essi, uccide il dragone, libera la principessa, se la prende in moglie, e coi cognati e con le sorelle torna al suo regno.)
Questo motivo apre spesso le fiabe del tipo "La Superbia Punita" come vedremo ne "Il Re Bazza di Tordo").
La seconda parte s'apparenta alle fiabe del tipo "Lo Sposo Animale", con la perdita e la ricerca dello sposo perduto.

La Regina che Volle un Sorso dell'Acqua Vera, Scozia

ei tempi passati c'era una regina, malata e con tre figlie. Un giorno disse alla maggiore:
"Va' alla fonte dell'acqua vera e portamene un sorso che mi guarisca."
La figlia andò alla fonte. Una rana, o piuttosto un rospo, venne alla superficie e le chiese se l'avrebbe sposato in cambio di un sorso d'acqua per la madre.
"Non ti sposerò certo, mostruosa creatura! A nessun costo!"
"Allora non avrai l'acqua!"
La ragazza tornò a casa e la madre mandò la sorella che veniva dopo di lei. La ragazza andò alla fonte, il rospo venne su e le chiese "se voleva sposarlo, in cambio di un sorso d'acqua per la madre".
"Non ti sposerò certo, mostro!"
"Allora non avrai l'acqua!"
Lei tornò a casa, e la sorella minore fu mandata alla fonte. Come al solito, il rospo venne su e le chiese "se l'avrebbe sposato, in cambio dell'acqua".

Rackham A.

"Se non c'è altro modo per guarire mia madre, ti sposerò" disse la ragazza. Così ebbe l'acqua e guarì la madre. Erano andati tutti a riposare per la notte quando il rospo si presentò alla porta e disse:

 "A chaomhag, a chaomhag, 
an cuimhneach leat 
an gealladh beag 
a thug thu aig 
an tibar dhom 
a ghaoil, a ghaoil

che voleva dire:

"ah, mia gentile, mia gentile!
non ricordi 
il piccolo pegno 
che mi desti 
accanto alla fonte, 
amore mio, amore mio!" 

Il rospo lo ripeteva senza posa, e la fanciulla si alzò, lo prese, e lo mise dietro la porta; poi tornò a letto. Ma si era appena distesa che il rospo riprese a gracidare: "A chaomhag, a chaomhag; a ghaoil, a ghaoil..."e non la smetteva mai. Allora lei si alzò e lo mise sotto un noggin [1] ; cosa che lo tenne quieto per un po'; ma si era appena coricata che l'importuno riprese:"A chaomhag, a chaomhag; a ghaoil, a ghaoil...". Lei si alzò ancora una volta e gli fece un lettuccio accanto al fuoco; ma al rospo non piacque, e ricominciò:"A chaomhag, a chaomhag; a ghaoil, a ghaoil..." Così la ragazza si alzò e gli fece un giaciglio accanto al proprio letto; ma il rospo diceva sempre, senza posa: "A chaomhag, a chaomhag; a ghaoil, a ghaoil..."
Questa volta la ragazza non si curò del lamento, finchè il rospo le disse: "Dietro il tuo letto c'è una vecchia spada arrugginita: faresti meglio a tagliarmi la testa, piuttosto che lasciarmi in questa tortura." Allora la ragazza prese la spada e gli tagliò la testa. Appena la lama lo toccò, il rospo divenne un giovane bellissimo e ringraziò mille volte la sposa per averlo liberato dall'incantesimo. Poi, visto che era un Re, si riprese il regno e si unì alla principessa. E vissero insieme a lungo, felici e contenti.

[1] Piccolo boccale della msura di un quarto di pinta.

John Francis Campbell 

Da "Fiabe e Leggende Scozzesi", a cura di M.L.Magini e G.Agrati

sabato 25 maggio 2013

Il "Ranocchino" Italiano - Capuana, e le Note di Calvino

uesta è la bella storia di Ranocchino porgi il ditino, e sentirete qui appresso perché si dica così.
Si racconta dunque che c'era una volta un povero diavolo, il quale aveva sette figliuoli, che se lo rodevano vivo. Il maggiore contava dieci anni, e l'ultimo appena due.
Una sera il babbo se li fece venire tutti dinanzi.
"Figliuoli - disse - son due giorni che non gustiamo neppure un gocciolo d'acqua, ed io, dalla disperazione, non so più dove dar di capo. Sapete che ho pensato? Domani mi farò prestar l'asino dal nostro vicino, gli porrò le ceste e vi porterò attorno per vendervi. Se avete un po' di fortuna, si vedrà."
I bimbi si misero a strillare; non volevano esser venduti, no! Solo l'ultimo, quello di due anni, non strillava.
"E tu, Ranocchino? " gli domandò il babbo, che gli avea messo quel nomignolo perché era piccino quanto un ranocchio.
"Io son contento " rispose.
E la mattina quel povero diavolo se lo prese in collo, e cominciò a girare per la città.
"Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!"
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
S'affacciò alla finestra la figlia del Re.
"Che cosa vendete, quell'uomo?"
"Vendo questo bimbo, chi lo vuol comprare."
La Reginotta lo guardò, fece una smorfia e gli sbatacchiò le imposte sul viso.
"Bella grazia! " disse quel povero diavolo. E riprese ad urlare:
"Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!"
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
Quel povero diavolo non avea coraggio di tornare a casa, dove gli altri figliuoli lo aspettavano come tant'anime del purgatorio, morti di fame.
Ranocchino intanto gli s'era addormentato addosso.
Allora lui pensò ch'era meglio ammazzarlo, piuttosto che vederlo patire: gli avrebbe ammazzati tutti, quei figliuoli, ad uno ad uno; e cominciava da questo!
Era già sera: e, uscito fuor di città, si ridusse in una grotta, dove non poteva esser veduto da nessuno. Adagiò per terra il bimbo che dormiva tranquillamente, e prima d'ammazzarlo si mise a piangerlo:

"Ah, coricino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Ah, Ranocchino mio!
E non ti vedrò più per la casa, non ti vedrò!
Ah, coricino mio!
E chi fu la strega che te lo cantò in culla, chi fu?
Ah, Ranocchino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!"

Spezzava il cuore perfino ai sassi.
"Che cosa è stato, che piangi così?"
Il povero diavolo si voltò e vide una vecchia seduta a traverso la bocca della grotta, con un bastoncello in mano.
"Che cosa è stato! Ho sette figliuoli piccini e moriamo tutti di fame. Per non vederli più patire, ho deliberato d'ammazzarli; e comincio da questo."
"Come si chiama?"
"Si chiama Beppe; ma noi gli diciamo Ranocchino."
"E Ranocchino sia!"
La vecchia toccava appena il bimbo col bastoncello, che quegli era già diventato un ranocchio e saltellava qua e là.
Il povero padre rimase spaventato.
"Fatti coraggio! - gli disse la vecchia - Fruga in quel canto; c'è del pane e del formaggio: mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna."
Quando i figliuoli lo videro tornare senza il fratellino, si misero a strillare.
" Zitti! Ecco del pane e del formaggio."
"Ma Ranocchino dov'è?"
"È morto!"
Disse così per non esser seccato.
E il giorno appresso, prima dell'ora fissata, andava ad appostarsi sotto le finestre del palazzo reale. Aspetta, aspetta, la vecchia non compariva. La figlia del Re era a una finestra, che si pettinava. Lo riconobbe e gli domandò, per canzonatura:
"O quell'uomo, e Ranocchino ve l'han comprato?"
Ma prima che quello rispondesse, ecco la vecchia con una coda di gente dietro. La gente fece crocchio e la vecchia, nel mezzo, diceva:
"Ranocchino, porgi il ditino!"
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli:  "Ranocchino, porgi il ditino"; non se ne dava per inteso. Una meraviglia non mai vista. E tutti pagavano un soldo.
La Reginotta fece chiamar la vecchia sotto la finestra; voleva veder anche lei.
"Ranocchino, porgi il ditino!"
Rimase ammaliata. E corse subito dal Re.
"Babbo, se mi vuoi bene, devi comprarmi quel Ranocchino."
"Che vorresti tu farne?"
"Allevarlo nelle mie stanze: mi divertirò."


 Koverzneva V.

Il Re acconsentì.
"Buona donna, quanto volete di quel Ranocchino?"
"Maestà, lo vendo a peso d'oro. È quel che vale."
"Voi canzonate, vecchia mia."
"Dico davvero. Domani varrà il doppio. Ranocchino, porgi il ditino!"
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli:
"Ranocchino, porgi il ditino "; non se ne dava per inteso.
"Vedi? - disse il Re alla Reginotta - Occorre anche la vecchia."
La Reginotta non s'era provata.
"Ranocchino, porgi il ditino!"
Ranocchino spiccò un salto, le fece una bella riverenza e le porse il ditino.
Allora bisognò comprarlo: se no, la Reginotta non si chetava.
Posero Ranocchino in un piatto della bilancia e un pezzettino d'oro nell'altro, ma la bilancia non lo levava. Possibile che quel Ranocchino pesasse tanto? Colmarono d'oro il piatto ma la bilancia non lo levava. La Reginotta e la Regina si tolsero gli orecchini, gli anelli, i braccialetti e li buttarono lì. Nulla! Il Re si tolse la cintura, ch'era d'oro massiccio, e la buttò lì. Nulla!
"Anche la corona! Vorrei ora vedere!..."
Allora la bilancia levò esatta; non mancava un pelo.
La vecchia si rovesciò quel mucchio d'oro nel grembiule e andò via.
Quel povero diavolo l'attendeva all'uscita.
"Tieni!"
E gli riempì le tasche.


 Koverzneva V.

"Però bada! Spendi tutto a tuo piacere; ma la corona reale, se tu la vendi o la perdi, guai a te!"
La Reginotta si spassava, tutto il giorno, con Ranocchino.
"Ranocchino, porgi il ditino!"
Era una bellezza. Lo teneva sempre in mano, lo portava seco dovunque. A tavola, Ranocchino dovea mangiare nel piatto di lei.
" Una cosa sconcia! "diceva la Regina.
Ma quella era figlia unica, e le perdonavano tutti i capricci.
Arrivò il tempo che la Reginotta dovea andare a marito. L'avea chiesta il Reuccio del Portogallo, e il Re e la Regina n'eran contentissimi. Lei disse di no:
Voleva sposare Ranocchino!
Poteva darsi? Intanto non c'era verso di persuaderla.
"O Ranocchino, o nessuno!"
"Te lo do io Ranocchino!"
E il Re, afferratolo per una gambetta, stava per sbatacchiarlo sul pavimento; ma entrò un'aquila dalla finestra che glielo strappò di mano e sparì.
La Reginotta piangeva giorno e notte. Povera figliuola, faceva pena! E tutta la corte stava in lutto.
Intanto in casa di Ranocchino pareva tutti i giorni carnovale. Spendi e spandi; mezzo vicinato banchettava lì e i danari andavano via a fiumi. Finalmente non ci fu più il becco d'un quattrino.
"Babbo, vendiamo la corona reale."
"La corona reale non si tocca!"
"Si dee crepar di fame? Vendiamola!"
"La corona reale non si tocca."
Quel povero diavolo tornò nella grotta in cerca della vecchia, e si mise a piangere.
"Che cosa è stato?"
"Mammina mia, i quattrini son finiti e quei figliuoli vorrebbero vendere la corona reale; ma io non l'ho permesso."
"Fruga in quel canto. C'è del pane e del formaggio; mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna."
Tornò a casa, e trovò una tragedia! Cinque figliuoli erano stesi morti per terra in un lago di sangue; uno respirava appena:
"Ah, babbo mio! È venuta un'aquila forte e picchiò alla finestra. 'Ragazzi, fatemi vedere la corona reale.' 'Il babbo la tiene sotto chiave.' 'E dove l'ha riposta?' 'In questa cassa.' Allora, a colpi di becco, cominciò a scassinarla; e siccome noi ci si opponeva, ci ha tutti ammazzati."
Detto questo, spirò.
Quel povero diavolo si sentì rizzare i capelli. I figliuoli morti e la corona sparita!
Il giorno dopo, quando vide la vecchia, le raccontò ogni cosa.
" Lascia fare a me! " rispose quella.
La Reginotta stava malissimo. I medici non sapevano più quali rimedi adoprare.
"Maestà, - dissero, all'ultimo - qui ci vuol Ranocchino, o la Reginotta è spacciata."
Il Re si disperava:
" Dove prenderlo quel maledetto Ranocchino? L'aquila lo aveva già digerito da un pezzo."
Si presentò la vecchia:
"Maestà, Ranocchino ve lo farei trovare io; ma ci vuole un gran coraggio."

venerdì 24 maggio 2013

Il Principe Ranocchio o Enrico di Ferro-Grimm 1

ei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un Re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava quando le brillava in volto. Vicino al castello del Re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana. Nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente. E, quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò:
"Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi."
Lei si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme.
"Ah, sei tu, vecchio ranocchio!- disse - piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte."
"Chétati e non piangere - rispose il ranocchio - ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco la tuo palla?"
"Quello che vuoi, caro ranocchio - disse la principessa - i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d’oro."


Symonds W.R.

Il ranocchio rispose: "Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d’oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, sedere con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d’oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo, mi tufferò e ti riporterò la palla d’oro."
"Ah sì - disse la principessa - ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla."
Ma pensava: 'Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell’acqua a gracidare coi suoi simili e non può essere il compagno di una creatura umana?'
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott’acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull’erba. La principessa, piena di gioia al vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via.
"Aspetta, aspetta!- gridò il ranocchio - prendimi con te, io non posso correre come fai tu."
Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola? La principessa non l’ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticato la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.

Tenggren G.


Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col Re e tutta la Corte, mentre mangiava dal suo piattino d’oro - plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò:
"Figlia di re, piccina, aprimi!"
La principessa corse a vedere chi c’era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il Re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse:
"Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c’è forse un gigante che vuol rapirti?" "Ah no,- disse lei - non è un gigante, ma un brutto ranocchio."
"Che cosa vuole da te?"
"Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d’oro cadde nell’acqua. E, poiché piangevo tanto, il ranocchio me l’ha ripescata. E perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell’acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me." Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:


"Figlia di re, piccina,

aprimi!
Non sai più quel che ieri
m’hai detto vicino
alla fresca fonte?
Figlia di re, piccina,
aprimi!"


Allora il Re disse: “Quel che hai promesso devi mantenerlo; va’ dunque, e apri." Lei andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: "Sollevami fino a te". La principessa esitò, ma il Re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e, quando fu sul tavolo, disse:
"Adesso avvicinami il tuo piattino d’oro, perché mangiamo insieme."
La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse:
"Ho mangiato a sazietà e sono stanco. Adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire".
La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il Re andò in collera e disse:
"Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno". Allora lei prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma,quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse:
"Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre."
Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: "Adesso starai zitto, brutto ranocchio!"
Ma,quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all’infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d’oro; e dietro c’era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall’angoscia. La carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione.
Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò:
"Enrico, qui va in pezzi la carrozza!"


"No, padrone, non è la carrozza,

Bensì un cerchio del mio cuore,
Ch’era immerso in gran dolore,
Quando dentro alla fontana
Tramutato foste in rana."


Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e, ogni volta, il principe pensò che la carrozza andasse in pezzi, e, invece, erano soltanto i cerchi che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.

Grimm n.1, "Der Froschkönig oder der eiserne Heinrich"
Classificazione AaTh 440 [The Frog King or Iron Henry]


Gustafson S.

Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

Il Castello Errante di Howl (Secondo Me) - Capitolo Quarto

In Cui Sophie Scopre Diverse Cose Strane

Al risveglio, Sophie stenta a credere di non aver sognato tutto, ma i dolori alla schiena e le giunture scricchiolanti le ricordano la sua attuale condizione... Si guarda intorno, è sola (Calcifer tace sotto una coltre di cenere bianca), ma una finestra si è improvvisamente materializzata sul tavolo da lavoro.
Prima Cosa Strana: Sophie si affaccia pensando di vedere il panorama della brughiera, ma...

"Con suo grande stupore la vista che si godeva era il panorama di una cittadina di pescatori. Poteva vedere una strada bianca e tortuosa fiancheggiata da casupole, all'apparenza povere, e alberi di navi oltre i tetti. Al di là degli alberi colse lo scintillio del mare, che non aveva mai visto in vita sua."

Molto pratica come sempre, Sophie trova che, tutto considerato, ci sia poco da stupirsi in casa di un Mago, ed ispeziona la cucina-laboratorio in cui ha trascorso la notte. Salta agli occhi che ragni e polvere ricoprono ogni cosa, compreso il teschio. Sophie sospetta che Howl tenga la servitù in quella desolazione per pura malvagità, e, intanto, si accorge di quattro porte basse. Aprendo la prima, si trova in "una vasta stanza da bagno che ti saresti immaginato di vedere solo in un grande palazzo ."

Anche qui, sporcizia, polvere e muffa. Ma anche una miriade di vasetti, bottigliette, tubetti. La seconda porta dava su di una scala "di legno tutta sgangherata". Sophie si ritrasse intimorita, ma pensò che portasse ad un solaio. La terza porta "si apriva su un cortiletto disordinato e circondato da alte mura di mattoni". La quarta dava sullo sgabuzzino delle scope. Beh, Sophie è un po' interdetta. Di quell'imponente castello non ha visto che una piccola cucina, una grande stanza da bagno ed uno sgabuzzino.

Anticipo il racconto e riporto la spiegazione che le darà più avanti il giovane apprendista...
"C'è solo la parte del castello che avete visto, Sophie, oltre a due camere da letto al piano di sopra. [...] Howl e Calcifer hanno inventato il castello. È il dèmone a mantenerlo in movimento. Il suo interno è costituito dalla vecchia casa di Howl a Porthaven ed è l'unica parte reale."

Dunque, il Castello fa parte degli "effetti speciali" con cui il Mago intende "impressionare tutti con il suo potere e la sua malvagità ", Re compreso, perché la sua fama ne risulti accresciuta. Porthaven è la cittadina sul mare che Sophie ha visto dalla finestra.
Torniamo al risveglio di Sophie. Michael si sorprende di trovarla ancora lì, ma le propone gentilmente di condividere una colazione a base di pane e formaggio. Sophie, che, come s'è detto, è vecchia ma in ottima salute, ha fame e adocchia uova e pancetta: perché non consumare un pasto caldo?

"Howl è il solo in tutto il castello che possa cucinare...[...] Il problema è Calcifer, il demone del fuoco. Non piegherà la testa per permettere ad alcuno, tranne che a Howl ovviamente, di usare le sue fiamme per cucinare."

Sophie impugna una grande padella nera, uova e pancetta e, mentre, ad alta voce, minaccia Calcifer di versargli dell'acqua in testa, oppure di levargli la legna... a bassa voce, lo minaccia di rompere il loro patto e/o di raccontare tutto a Howl.
" 'Maledizione-imprecò Calcifer - Michael, perché l'hai lasciata entrare?' Poi chinò la faccia imbronciata in avanti finché non si vide solo l'aureola di fiamme verdi danzare sui ceppi." In quel momento entrò Howl. " Allora Sophie si girò di scatto e fissò il Mago che sfoggiava un abito sgargiante blu e argento, e si era chinato nell'atto di appoggiare la chitarra in un angolo. Howl scostò il ciuffo biondo che gli copriva la fronte rivelando due occhi verdi, di un verde che ricordava il vetro di una bottiglia. La guardò incuriosito e sul volto, lungo e squadrato, si poteva leggere un'espressione perplessa. 'Chi accidenti sei? Dove ti ho già visto?' 'Sono assolutamente un'estranea' mentì Sophie [...] Howl infatti lo aveva incontrato in quel Calendimaggio che ora le sembrava tanto lontano, e l'aveva chiamata piccolo topino grigio."

Reazioni di Sophie: "Sarebbe morta piuttosto di far sapere a quel ragazzo così pomposamente vestito che lei era la giovane della quale lui aveva avuto compassione quel giorno di maggio. Cuore ed anima non c'entravano in questo momento. Howl non lo avrebbe saputo."
C'è da dire che adesso, novantenne, Sophie vede Howl come un ragazzino, non più come un decrepito ventenne.
Di lui sa: Che non strappa il cuore alle ragazze giovani e belle e non fa collezione delle loro anime. Che, grazie al riluttante aiuto di Calcifer, a cui è legato da un contratto misterioso e che nessuno dei due ha scelto di stipulare, si circonda di "effetti speciali" per farsi una fama sinistra ed ambigua.
Sa che ha una nemica molto potente. Calcifer lo descrive come "perfettamente inutile e concentrato solo su se stesso". D'altra parte, è l'unico a cui permette di "usarlo" per cucinare... Infatti, vedere Sophie impegnata a friggere la pancetta sorprende Howl più della sua inattesa presenza nel castello  (che del castello ha solo l'apparenza, come abbiamo detto, trattandosi della sua casetta di Porthaven !). La sostituisce immediatamente e finisce di cuocere la colazione .



" 'Mi ha detto che si chiama Sophie' stava intanto spiegando Michael.'
'E come ha fatto a piegare Calcifer?' 
'Mi ha tiranneggiato!'spiegò Calcifer con voce lamentosa e soffocata da sotto la padella.
'Non sono molte le persone in grado di farlo' disse Howl pensieroso avvicinandosi al camino."

Alle ovvie domande sul perché della sua presenza, Sophie si propone come domestica... e con una certa sfacciataggine: " Io posso pulire lo sporco di questo posto, anche se non posso spazzar via la malvagità dal tuo cuore, giovanotto!' 'Howl non è cattivo' intervenne Michael. 'Sì che lo sono - lo contraddisse Howl -Ti dimentichi come sia crudele in questo momento, Michael ."
Non dice nulla circa la futura permanenza di Sophie, ma le chiede di apparecchiare la tavola e le consente di dividere la colazione con loro.





Senza far domande (" Non solo risultava difficile punzecchiare Howl, ma sembrava anche che non gli facesse piacere rispondere a nessun tipo di domanda"), Sophie piazza il suo bastone nello sgabuzzino delle scope, tanto per chiarire le sue intenzioni.

Altra cosa strana, la più strana di tutte - e che chiarisce la vista del panorama di Porthaven dietro i vetri dell'unica finestra - la spiego qui, una volta per tutte.
Sopra la porta d'ingresso c'è un pomello quadrato, ogni lato ha un colore diverso:
Colore blu in basso e la porta si apre su Porthaven, dove Howl risiede ed è conosciuto come Jenkins lo Stregone; 
Colore rosso in basso, Kingsbury, la città dove risiede il Re e dove Howl è il Mago Pendragon; Colore verde e siamo sulle colline intorno a Market Chipping, dove il Mago è l'Orribile Howl...
C'è anche un lato del pomello dipinto di nero, ma questo non lo anticipo.
Quando qualcuno bussa, è Calcifer che urla:" Porta di Porthaven " o di Kingsbury.
Dopo colazione, bussarono proprio alla porta di Kingsbury, Howl ruotò il pomello in modo che la parte rossa fosse rivolta in basso, ed aprì ad un elegante personaggio, atteso da una carrozza altrettanto imponente, che gli consegnò, da parte del Re, un sacchetto di seta ben gonfio di monete come anticipo per la consegna di duemila paia di stivali delle sette leghe. Michael sembrò piuttosto contrariato nel vedere quel mucchio di monete in mano ad Howl. Intanto, Sophie aveva sbirciato: là dove avrebbero dovuto esservi le colline vide "una strada piena di case sontuose decorate con incisioni dipinte e torri, guglie e cattedrali di uno splendore inimmaginabile." Sophie chiede a Michael se pensa che Howl la lascerà restare. "Se lo farà, voi non dovrete forzarlo in nessun modo. Odia essere vincolato a qualsiasi cosa."

(continua)

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Erzsébet Bathory, la "Contessa Dracula" Ungherese

Questo è il racconto - il più possibile al di là della leggenda - della “vita ed opere” di una Donna realmente vissuta che fu accusata di crimini terribili, di aver seviziato ed ucciso più di seicento ragazze, alcune delle quali bambine addirittura, inseguendo - si narra - il folle sogno dell'eterna giovinezza.
Libri, film e fumetti ne hanno tramandato le “gesta”, creato e poi modificato il personaggio, spesso assecondando le derive voyeuristiche proprie e/o quelle del pubblico a cui si rivolgevano.
Possiamo solo tentare di separare la leggenda dalla cronaca, il giudizio da un effettivo approfondimento degli eventi, senza trascurare l'intreccio degli interessi economici e politici che troppo spesso fanno da sfondo alla genesi di  certe popolari “leggende nere”, cercando di comprendere, inoltre, quanta parte abbiano in questa storia tare ereditarie, patologia, e devastanti esperienze traumatiche, reali o presunte. Né possiamo dimenticare, magari in combinazione con alcune delle altre ipotesi, la più semplice e terribile: forse, questa storia, all'epoca, non era così straordinaria, ovvero fuori dall'ordinario. 
Sembrerebbe che personaggi simili seguano la stessa parabola... Gilles de Rais  (il Barbablu francese, compagno d'arme di Giovanna D'Arco, di cui parlerò in seguito) spese una fortuna regale alla ricerca della pietra filosofale... Ma sarà tutto vero? Oppure, nel momento in cui un personaggio di alto rango - con un enorme patrimonio e parenti “affettuosi” appoggiati da amici influenti - in un delirio di onnipotenza, faceva ostentata (ed imbarazzante) indigestione di quei vizi, di quelle stesse perversioni e di quella feroce immunità che condivideva con larga parte degli appartenenti alla medesima casta, veniva, magari, “sacrificato”, quando ciò conveniva politicamente ed economicamente alla maggior parte dei suddetti parenti, amici ed ex-protettori, soddisfacendo al contempo, anche se per un solo giorno, l'atavica sete di giustizia e di vendetta del popolino oppresso, umiliato, sfruttato, schiavizzato e “oggettivizzato” dalla fame di sangue e dalle perversioni dei Signori? Una bella ripulita, magari accompagnata da un'esemplare confessione, e poi la casta continuava ad esercitare il suo potere incontrollato, con maggiore discrezione e un'ossessione omicida numericamente meno imbarazzante. Ma vedremo in seguito.





L'inizio è simile ad una fiaba, la fiaba di una piccola, fortunata principessa.
Nel 1560, in un villaggio ungherese, nacque una bella bambina.
La neonata, Erzsébet Bathory, non era una semplice contadinella: il suo villaggio natale, con molti altri, apparteneva alla nobile famiglia dei Conti Bathory, del cui immenso patrimonio costituiva solo una briciola. I suoi genitori erano discendenti e parenti di grandi personaggi di sangue reale: sua madre era sorella del Re di Polonia, e i Bathory avevano legami di sangue con gli stessi Sovrani di Ungheria.
La piccola venne condotta in Transilvania, a Ecsed, dove, nel grande castello di famiglia, fu allevata come una regina, anzi, meglio di una regina, perché non tutte le nobildonne del tempo potevano vantare la fine educazione che ella ricevette; molte fra loro erano addirittura analfabete. Erzsébet, invece, in tenerissima età, era non solo capace di leggere e scrivere, ma studiava latino, greco, storia...
Aveva poco più di dieci anni quando il suo futuro fu stabilito: avrebbe sposato Ferencz Nadasdy, di pochi anni più grande di lei, rampollo di una famiglia nobile e ricca, anche se non quanto quella dei Bathory a cui era lontanamente imparentata. Ed è per questo motivo che, secondo l'uso ungherese, Erzsébet conservò sempre il nome della propria Casata di origine. Alla base del contratto di nozze, naturalmente, comuni interessi politico-economici.
Il padre morì improvvisamente nel 1571, quando la bambina aveva undici anni, e, in attesa di raggiungere l'età giusta per le nozze, Erzsébet fu condotta a Sarvar, in Ungheria, in una proprietà della famiglia del suo futuro sposo, perché la sua educazione  (o meglio, il suo addestramento, in questo caso) venisse completata secondo gli usi ed i cerimoniali della Casata in cui stava per entrare.
Si racconta che, a tredici anni, Erzsbét partorì una figlia illegittima, illegittima e certamente neanche figlia del futuro marito, che, in quegli anni, completava i suoi studi lontano da Sarvar. Della neonata, comunque, non si conoscono altre notizie: chi la dice figlia di un “plebeo” locale, chi frutto dell'amore di Erzsébet per un giovane nobile di altissimo rangoComunque, nel 1575, andò sposa a Ferencz Nadasdy, come stabilito. La cerimonia fu fastosa, degna di due rampolli di sangue reale.
Per dieci lunghi anni, da questa unione non nacquero figli. Poi, finalmente, nel 1585, Erzsébet diede alla luce una bambina. E, nei successivi dieci anni, partorì altre due figlie femmine e il piccolo Pal, l'attesissimo erede. Ma, in questi anni in cui diveniva finalmente e ripetutamente madre (e pare fosse una madre attenta e sollecita), qualcosa di “straordinario”, di oscuro e terribile, stava già segnando la sua vita.
Perché fu  proprio in questi anni, anni teoricamente, di appagamento e serenità, che Erzsébet - secondo le accuse che le vennero rivolte e la leggenda che è giunta sino a noi - incominciò a dedicarsi alla stregoneria, alla magia nera, e all'alchimia.
La Contessa era molto bella, era intelligente, sappiamo che aveva una cultura notevole, avendo potuto usufruire di un'istruzione decisamente superiore rispetto alle altre rampolle di nobili casate. Dieci anni e tre figlie dopo una gravidanza indesiderata, aveva adempiuto al massimo o, forse, all'unico dovere che le venisse richiesto: aveva partorito l'erede maschio. E' vero, era spesso sola, perché il marito era continuamente impegnato in campagne militari, ma ho il sospetto che non morisse di dolore e di nostalgia, soprattutto dopo l'agognato decesso dell'odiata suocera, una donna dura, autoritaria ed analfabeta con cui non ebbe mai un buon rapporto. Padrona e signora assoluta del Castello di famiglia, godeva di grande libertà. Che cosa le successe? Dicono che prese a circondarsi di strani personaggi, suoi servitori, che la iniziarono di nascosto alle Arti magiche ed alla stregoneria, divenendo, in seguito, suoi complici e sicari.
In una lettera inviata al marito impegnato in una campagna militare, spiega, nel dettaglio, una pratica magica per avere la meglio sul nemico. Gli suggerisce di uccidere una gallina nera, con un bastone bianco, e di spargerne il sangue sul nemico, oppure su di un capo di vestiario che gli appartenesse. Quindi, per il marito non era affatto un segreto ch'ella si dedicasse a certe Arti oscure. E qui veniamo ad un altro aspetto della vicenda che mi pare piuttosto controverso e contraddittorio.
Da una parte, si tramanda l'evoluzione negli anni di una innata vena sadica di Erzsébet, sfociata, poi, nel delirio omicida. Gli argomenti a sostegno dell'accusa riguardanti questo periodo (stiamo parlando di una Erzsébet non ancòra assassina) in realtà, avrebbero potuto insinuare forti dubbi sui tre quarti della nobiltà dell'epoca: trattava con estrema volubilità e durezza le ragazze al suo servizio, punendole severamente anche per infime negligenze, vere o presunte; le obbligava ad accontentare i suoi capricci più fantasiosi e ad obbedire ad ordini assurdi. Bisogna dire che, secondo altre fonti, si sottolinea come il marito non fosse da meno, anzi, che le fosse complice e istigatore.

( continua )

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Le Scarpette Rosse - Andersen (Versione Integrale), Traduzione Mia

'era una volta una bambina tanto bellina e delicata, ma, poiché era poverissima, in estate, andava in giro sempre a piedi nudi, e, in inverno, calzava zoccoli di legno così grandi che il collo dei suoi piedini si arrossava da far pena.
Nel centro della città, abitava l'anziana madre del calzolaio che cucì alla meglio un paio di scarpette con vecchie strisce di cuoio rosso. Le scarpe erano rozze, ma la donna le aveva cucite con le migliori intenzioni: voleva donarle alla bambina. La bambina si chiamava Karen.
Karen ricevette le scarpette rosse proprio il giorno in cui venne seppellita sua madre, e le calzò. Non erano certamente adatte per un'occasione così triste, ma non aveva altro, e così vi infilò i piedini e si mise a seguire la povera bara di paglia.


Robinson W.H.


In quel mentre, passò una grande carrozza decrepita, e una gran Dama decrepita era seduta al suo interno: vide la bambina ed ebbe compassione di lei. Quindi, andò dal pastore e gli disse:
"Mi affidi quella piccola perché voglio adottarla!".
E Karen credette che il merito fosse tutto delle scarpette rosse, ma la vecchia Dama le trovava orribili e ordinò che fossero bruciate. Karen ricevette vestiti lindi e graziosi, le fu insegnato a leggere e a cucire, e la gente le diceva che era carina, ma lo specchio le confidava:
"Tu sei molto più che carina: tu sei bella!".
Un giorno, la Regina intraprese un viaggio attraversando tutto il Regno, e recò con sé la sua figlioletta; la figlia della Regina era una Principessa e la gente si riversò all'ingresso del castello, e tra la folla c'era anche Karen. La Principessina indossava un prezioso abito bianco e si era affacciata alla finestra per lasciarsi ammirare: non aveva né strascico né corona d'oro, ma calzava un paio di deliziose scarpette di marocchino rosso.


Cameron K.



Naturalmente, erano tutt'altra cosa rispetto alle scarpe che la madre del calzolaio aveva cucito per la piccola Karen. Niente al mondo può stare a paragone di un paio di scarpette in cuoio rosso!
Quando Karen ebbe l'età giusta per ricevere il sacramento della Cresima, le comprarono abitini nuovi e scarpe nuove. Il ricco calzolaio della città le misurò il piedino. Glielo misurò in casa propria, una casa con grandi armadi di vetro ricolmi di splendide scarpette e di stivaletti luccicanti: era tutto bellissimo, ma la vecchia Dama ci vedeva poco e quindi non ne traeva alcun piacere. Fra le scarpette ce n'era un paio rosso, identiche a quelle indossate dalla Principessina: com'erano belle! Il calzolaio spiegò che erano state cucite per la figlioletta di un Conte, ma non le andavano bene.
"Sono sicuramente di ottimo cuoio - commentò la vecchia Dama - come luccicano!"
"Sì, luccicano", disse Karen, e, poiché le calzavano a pennello, furono acquistate, ma la vecchia Dama non sapeva che le scarpette erano rosse, altrimenti non avrebbe mai permesso a Karen di indossarle per recarsi in chiesa a ricevere la Cresima. Cosa che, invece, accadde.



Robinson W.H.



In chiesa, tutti guardavano i piedi di Karen, e, quando percorse la navata, diretta al coro, le parve che persino gli antichi ritratti dei pastori defunti e delle loro consorti, con il colletto inamidato e lunghe vesti nere, volgessero lo sguardo verso le scarpette rosse, e lei pensò solo alle scarpette anche quando il pastore le mise la mano sul capo parlando del Santo Battesimo, dell'Alleanza con Dio e del fatto che da quel momento doveva considerarsi una cristiana confermata. E, mentre l'organo suonava solenne, e mentre si levavano limpide le voci cristalline dei bimbi del coro, e anche quando il vecchio maestro cantore cantò, sempre Karen pensava solo alle sue scarpette rosse.
Nel pomeriggio, la vecchia Dama venne a sapere da alcuni conoscenti che le scarpette di Karen erano rosse. Allora, la rimproverò per aver commesso un'azione così disdicevole, e le disse che avrebbe sempre indossato solo le scarpe nere per andare in chiesa, anche quando sarebbero diventate ancòra più vecchie.
La domenica successiva, in chiesa si distribuiva la Comunione. Karen guardò le scarpe nere, poi quelle rosse, poi ancòra quelle rosse, e, infine, se le infilò!
Il tempo era bellissimo. Karen e la vecchia Dama passeggiavano per un sentiero in mezzo al grano, e il sentiero era polveroso.
Accanto al portone della chiesa se ne stava un vecchio soldato appoggiato ad una stampella, e aveva una lunghissima barba, più rossa che bianca, perché una volta era stata tutta rossa. Si inchinò fino a terra e chiese alla Dama se, per caso, non desiderasse  una bella pulita alle sue scarpe. Karen allungò subito il piedino.
"Ma che belle scarpette da ballo!- esclamò il soldato - state ben salde ai piedi quando ballate!" e batté le nocche sulla suola.
La vecchia Dama gli diede l'elemosina e poi entrò in chiesa insieme a Karen.
In chiesa, tutti i presenti e persino tutte le immagini appese ai muri guardarono le scarpette rosse di Karen, e lei, quando salì all'altare e avvicinò alle labbra il calice d'oro, pensò solo alle sue scarpette rosse, e le sembrò persino di vederle galleggiare nel calice. Così dimenticò di intonare il salmo e di recitare il Padre Nostro.
Poi tutti uscirono dalla chiesa e la vecchia Dama montò in carrozza. Karen sollevò un piede per salire dopo di lei, ma in quel momento il vecchio soldato che stava lì vicino disse: "Che belle scarpette da ballo!" e Karen non potè trattenersi dall'accennare qualche passo di danza, e, una volta che la danza ebbe inizio, i suoi piedi continuarono a ballare come se le scarpe avessero un potere su di loro, e Karen ballò fino all'angolo della chiesa. Il cocchiere dovette rincorrerla e afferrarla, poi la mise finalmente sulla carrozza, ma i piedi continuavano a ballare, tirando calci contro la buona vecchia Dama. Finalmente, si riuscì a toglierle le scarpette e i suoi piedini trovarono requie.



Ségur A.



Una volta a casa, le scarpe furono riposte in un armadio, ma Karen non poteva fare a meno di andare a guardarle.
La vecchia Dama si ammalò e dicevano che non sarebbe mai guarita: aveva necessità di cure e di assistenza e chi se non Karen avrebbe dovuto farsene carico? Ma in città si teneva un gran ballo a cui anche Karen era stata invitata. Guardò la vecchia Dama - che, tanto, aveva poco da vivere!- poi rimirò le sue scarpette rosse e pensò che non c'era niente di male in questo; poi, le calzò, e - pensò - non c'era nulla di male neanche in questo! Ma poi andò al ballo e cominciò a danzare.
Quando voleva ballare volteggiando a destra, le scarpe la portavano a sinistra, poi volle visitare la casa, ma le scarpe la riportarono indietro - sempre ballando - giù per le scale, fino all'ingresso, e poi in strada, fino alle porte della città. Ballava e non poté far altro che ballare e continuare a ballare sino al tetro bosco.
Ad un certo punto, Karen vide qualcosa brillare fra i rami degli alberi e credette fosse la luna, poiché le sembrava di scorgerne il volto, ma, in realtà, era il vecchio soldato dalla rossa barba che scuoteva il capo dicendo: "Toh! Ma che belle scarpette da ballo!".




Stratton H.


La bambina, terrorizzata, volle gettar via le scarpette rosse, ma erano come incollate; allora, si strappò via le calze, ma le scarpe sembravano un tutt'uno con i suoi  piedi, e ballava ballava - e non poteva fare altro - per campi e prati, sotto la pioggia e sotto il sole, di giorno e di notte; e di notte era più spaventoso che mai.
Ballando, entrò nel cimitero, che era aperto, ma i morti non ballavano, poiché avevano di meglio da fare. Karen voleva sedersi sulla tomba di un pover'uomo, dove cresceva l'amara salvia selvatica, ma non c'era pace né riposo per lei, e, quando si diresse verso la porta aperta della chiesa, vide un angelo ritto sulla soglia. Bianche erano le lunghe vesti, e grandi ali, dalle sue spalle, scendevano fino a toccare terra, il suo sguardo era corrucciato e severo e in mano brandiva una spada larga e lucente.
"Danzerai !- le disse - Danzerai con le tue scarpe rosse finché non diventerai emaciata e pallida! Finché la tua pelle non si raggrinzirà, finché non  sarai simile a uno scheletro! Danzerai di casa in casa, e, laddove abitano bambini superbi e vanitosi, tu busserai all'uscio perché ti sentano e tremino di  paura! Danzerai...!"
"Pietà!" gridò Karen. Ma non poté sentire la risposta dell'angelo perché le scarpe la portarono attraverso il cancello, fuori nei campi, per strade e ponti, e non poteva mai smettere di danzare.
Una mattina passò, ballando, davanti a una porta che conosceva bene: all'interno cantavano dei salmi e stavano trasportando in strada una bara ornata di fiori. Allora comprese che la vecchia Dama era morta e sentì di essere ormai abbandonata da tutti e maledetta dall'angelo del Signore.
Ballava e doveva continuare a ballare, nelle tenebre della notte. Le scarpe la trascinavano tra le spine e sui rovai, e lei si ferì a sangue; danzò oltre la brughiera fino ad una casina. Karen sapeva che lì abitava il boia e bussò con le nocche alla finestra dicendo:
"Vieni fuori! Vieni fuori! Io non posso entrare perché non riesco a smettere di ballare!".
E il boia le rispose: "Forse non sai chi sono io? Io taglio le teste ai malvagi, e sento già tintinnare la mia scure!"
"Oh, no! Non tagliarmi la testa - esclamò Karen - perché non potrei pentirmi dei miei peccati! Tagliami i piedi con le scarpette rosse".


Stratton H.


E gli confessò il suo peccato, e il boia le tagliò via i piedi con le scarpette rosse, ma le scarpe continuarono a ballare con i piedini attaccati, attraversarono i campi e scomparvero nel profondo del bosco.
Il boia le intagliò due piedini di legno e due grucce, le insegnò un salmo che solèvano cantare i criminali condannati a morte, e lei baciò la mano che aveva calato la scure, e se ne andò per la brughiera.
"Ho sofferto abbastanza per le scarpette rosse!- disse - ora voglio andare in chiesa, in modo che tutti mi possano vedere". E zoppicò spavaldamente fino  alla porta della chiesa, ma, quando vi giunse, c'erano le scarpette rosse che ballavano davanti a lei, e Karen, terrorizzata, tornò indietro.
Per tutta la settimana si afflisse e pianse molte lacrime amare, ma, quando fu di nuovo domenica, disse: "Ecco! Adesso ho patito e lottato abbastanza! Credo proprio di essere come molti di quelli che siedono in chiesa a testa alta!" e si avviò spavaldamente verso la chiesa, ma non era neanche arrivata al cancello che vide le scarpette rosse danzare davanti a lei, così si spaventò, tornò indietro e si pentì con tutto il cuore del suo peccato.



Klever O.


Andò allora al presbiterio e implorò di essere presa a servizio. Promise che sarebbe stata infaticabile e che avrebbe lavorato duramente senza chiedere un compenso: le bastava avere un tetto sopra la testa e vivere in casa di gente buona. La moglie del pastore ne ebbe compassione e la prese a servizio. E Karen si dimostrò laboriosa e assennata. Quando scendeva la sera, ascoltava - immobile - il pastore che leggeva la Bibbia a voce alta. Tutti i bambini le volevano un gran bene, ma, quando parlavano di sciocchezze, di lussi e di vanità, lei scuoteva la testa.
La domenica successiva, andarono tutti in chiesa e le domandarono se desiderasse andare con loro, ma Karen guardò tristemente le sue stampelle e rifiutò l'invito, con le lacrime agli occhi; così la famiglia del pastore si recò ad ascoltare la parola del Signore e lei si ritirò, sola, nella sua cameretta. Non era grande, ci entravano solo il letto e una sedia, e lei sedette con il suo libro dei salmi. Mentre lo leggeva con animo devoto, il vento le portò dalla chiesa la musica dell'organo e Karen rialzò gli occhi colmi di pianto ed esclamò: "Dio mio, aiutami!".
E il sole brillò di una vivissima luce ed ecco, davanti a lei, comparve l'angelo del Signore: era vestito di bianco, ed era l'angelo che aveva visto quella notte sulla soglia della chiesa, ma non brandiva più la spada tagliente, bensì uno splendido ramo rigoglioso di rose, e con quel ramo toccò il soffitto, che si alzò, si alzò e divenne altissimo, e, nel punto in cui l'angelo lo aveva toccato, apparve una stella d'oro; poi toccò le pareti, che arretrarono, e Karen potè vedere l'organo che suonava, e vide gli antichi ritratti dei pastori e delle loro mogli, e la folla che sedeva nei banchi scolpiti e cantava i salmi leggendo i libri di preghiere. La chiesa stessa era venuta dalla povera fanciulla, nella sua piccola camera, o forse lei era andata in chiesa?
Si ritrovò seduta accanto agli altri domestici del pastore, e, terminato il salmo, essi alzarono lo sguardo e le fecero cenno dicendo: "E' giusto che tu sia venuta, Karen!".


Anderson S.


"È stata la Misericordia divina!" rispose lei.
L'organo suonò nuovamente, e le voci infantili del coro si innalzarono, soavi e bellissime! La luce del sole, abbagliante e calda, attraversava la finestra e si posava proprio sul banco dove sedeva Karen. Il suo cuore fu così pieno di sole, di pace e di gioia che si spezzò, e la sua anima volò verso il sole, fino a Dio, e lassù nessuno le chiese conto delle scarpette rosse.

di H.C.Andersen

Traduzione: Mab's Copyright